Benvenuti nel blog di IdV Gualtieri

Lo scopo di questo blog è di dare la possibilità, a chi non ci conosce personalmente, di segnalarci situazioni particolari sul territorio ed eventualmente suggerirci migliorie da realizzare. Inoltre vorremmo trattare avvenimenti politici a carattere nazionale ed internazionale, condividendoli con tutti coloro che lo vorranno.

venerdì 18 marzo 2011

La LEGA contro l'Unità d'Italia


I numerosi rappresentanti della Lega, non riescono a essere coerenti fino in fondo. Sono Padani, non si sentono italiani, ma prendono soldi dai contribuenti italiani.

Sono gli italiani che pagano i vostri stipendi istituzionali. Il 27 di ogni mese, vi ricordate di essere "italiani" e andate a ritirare lo stipendio italiano.

Siete Padani, non riconoscete come vostro l’Inno d’Italia, ma siete i primi a pretendere poltrone nel Governo, sotto governo, Presidenze di Regione, Provincie e Comuni. Non siete ne dignitosi ne coerenti. Non vi riconoscete italiani ma siete seduti in poltrone istituzionali della Nazione Italia.

Siete della Padania, ma vi "sbattete" per ottenere Presidenze e posti nei Consigli d’Amministrazione di italianissime Banche, Enti e Società.

Siete Padani, avete eletto come vostro eroe Alberto da Giussano che storicamente è un personaggio leggendario del XII secolo citato in alcune opere letterarie scritte in secoli successivi.

La Padania non è una Nazione; non c’è storicamente, non c’è geograficamente, non c’è culturalmente.

Ieri, 17 marzo 2011, milioni d'italiani fieri ed orgogliosi, si sono emozionati nel festeggiare il 150° anniversario dell'unità d'Italia. 150 anni fa, il 17 marzo appunto, veniva incoronato il primo Re d'Italia, Vittorio Emanuele II. Ascoltare l'inno di Mameli mette i brividi per la storia che c'è dietro.

L'Italia è la Patria che i padri hanno lasciato ai figli. l’Italia, Patria sognata da uomini e donne, figli d'italiani, nati in terre straniere ma che si sentono italiani. Figli di quei milioni d'italiani, che anche dal Veneto, Lombardia e Piemonte, emigrarono in cerca di una vita migliore; la stessa vita migliore che oggi cercano milioni di extracomunitari.

Prima dell'unità d'Italia il Regno delle due Sicilie era la terza potenza mondiale, economicamente, per l’industria ed i servizi; conobbe miseria e povertà ed emigrazione solo dopo l’Unità d’Italia. Ebbene, nonostante ciò, essi sono fieri e orgogliosi di essere italiani e hanno festeggiato i 150 anni dell'Italia unita.

Voi, che vi sentite solo Padani, che dal Piemonte vi siete annessi l’intera penisola dovreste essere i primi a festeggiare, perché avete depredato ogni ricchezza, economica, industriale, culturale, ed artistica, di tutta la penisola.

Voi insultate i vostri avi, oltre all'inno e la bandiera. Insultate coloro che sono morti per avere un unica Patria.

Con orgoglio rivendichiamo il diritto di essere italiani. Viva l'Italia unita.

ennio annibale maione

domenica 13 febbraio 2011

In Italia i lavoratori dipendenti sono sotto schiaffo.


In Germania la Cancelliera Merkel, capisce che è ora di dare una svolta al lavoro in fabbrica e lancia un idea geniale: "Orario di lavoro a misura di famiglia". Governo , sindacati e imprenditori si impegnano a rivedere l'attuale sistema entro il 2013: più spazio al tempo libero. L'obiettivo è dare ai lavoratori la possibilità di occuparsi dei figli.

In Italia, viceversa, i lavoratori dipendenti sono sotto schiaffo. La "Classe Operaia", continua a ricevere spallate devastanti da imprenditori e Governo.

Mentre in Germania il Governo tende a dare sempre più dignità ai lavoratori, andando incontro ai loro bisogni, in Italia si punta a togliere loro ogni residuo di dignità.

Senza diritto al lavoro si perde la dignità. Solo regole giuste, fatte di diritti e doveri, possono garantire la dignità nei luoghi di lavoro. I lavoratori devono rispettare le regole aziendali, ma devono essere rispettati innanzitutto come persone.

Quanto sta accadendo in Italia, vedi il caso Fiat, è la dimostrazione pratica che i lavoratori, insieme ai diritti, stanno perdendo la dignità. Probabilmente Fiat è solo il caso più eclatante di quanto sta già accadendo in altre realtà minori.

In Italia i Sindacati si dividono in interessi di bottega, facendoli apparire come situazioni ineluttabili, dimenticando che il loro ruolo più importante è quello di garantire la dignità ai lavoratori nei luoghi di lavoro. Cari Segretari sindacali, i diritti e la dignità dei lavoratori non possono essere barattati.

Non è pensabile, in uno Stato Democratico, che il diritto al lavoro non sia garantito per legge. Dove ciò non esiste è la Libertà stessa a non essere garantita.

IdV Gualtieri

sabato 5 febbraio 2011

La Corte Costituzionale frena il Nucleare.


Il governo, di cui la Lega fa parte, aveva annunciato il piano per le centrali come obiettivo indispensabile per risolvere i problemi energetici del Paese. Poi il progetto è naufragato. Non sono state localizzate neanche le aree su cui far sorgere gli impianti e, soprattutto, nessuno li vuole.
La Corte Costituzionale ha stabilito che è obbligatorio il parere della Regione interessata, benché non vincolante, prima di realizzare una centrale nucleare. La Consulta ha dichiarato di fatto illegittimo l’articolo 4 del decreto attuativo della legge delega nella parte in cui, appunto, non prevede di ascoltare le amministrazioni regionali prima dell’intesa con la Conferenza unificata. «Attraverso tale consultazione mirata - spiegano i giudici - la Regione è messa nelle condizioni di esprimere la propria definitiva posizione, distinta nella sua specificità da quelle che verranno assunte, in sede di Conferenza unificata, dagli altri enti territoriali ».
Alla Corte costituzionale si erano rivolte Toscana, Emilia Romagna e Puglia. Esulta Nichi Vendola, governatore della Puglia: «La Consulta ricorda al governo che la democrazia non è un optional». Soddisfatti anche gli ambientalisti. Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, dice: «Per realizzare qualsiasi infrastruttura è necessaria la condivisione con il territorio, a maggior ragione per impianti che condizionano lo sviluppo futuro dell’area». Lo scorso novembre, la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittime le leggi regionali di Puglia, Campania e Basilicata che vietavano centrali nucleari sul loro territorio.

Due strani alleati esultano per il parziale stop alla realizzazioni di nuove centrali nucleari arrivato dalla Consulta. Si chiamano Rodolfo De Benedetti, proprietario di Sorgenia, e Umberto Bossi. Il primo, figlio di Carlo De Benedetti, è soddisfatto perché ha investito milioni di euro nella società leader per le energie rinnovabili (Sorgenia) e perché rischiava di essere automaticamente escluso dalla partita sul nucleare. Bossi, invece, perché alle centrali è favorevole (non si sa se per convinzione o dovere di amicizia nei confronti di Silvio Berlusconi, non si riesce mai a capire) purché i reattori atomici vengano piazzati lontano dalle Regioni che governa il suo partito.

Questo non vuol dire che la politica avviata dall’ex ministro Claudio Scajola, poi proseguita dal successore Paolo Romani, sia sul punto di naufragare. Ma mostra, per l’ennesima volta, la difficoltà di questo Governo a legiferare nel rispetto della Costituzione.
Nel gennaio del 2010, quando ancora godeva di una solida maggioranza in parlamento, il Governo sostenne che l’Italia aveva bisogno dell’energia nucleare per liberarsi degli alti costi d’acquisto dall’estero. Così il Consiglio dei ministri varò un decreto, poi diventato legge, che annullava gli effetti del referendum del 1987 con il quale gli italiani, "il popolo sovrano", si erano espressi contro il nucleare. E il Governo avrebbe avuto mano libera sul dove e come realizzare le centrali.

Dopo le proteste e gli esposti fatti in Puglia, Toscana ed Emilia Romagna, l’altro giorno la Corte costituzionale si è espressa. Non ha detto deciso niente di particolare, se non che la realizzazione delle centrali deve passare attraverso un parere (non vincolante) delle Regioni competenti. Ma chi si aspettava l’ennesima accusa a quei giudici “sovversivi e comunisti” è rimasto deluso. Berlusconi forse non ha avuto neppure il tempo di accorgersi di quello che era appena accaduto, impegnato a trovare una via d’uscita dal Rubygate.
A esultare per quanto deciso dalla Consulta ci hanno pensato il lombardo Roberto Formigoni e il veneto Luca Zaia. Entrambi autorevoli nuclearisti, purché lontano da Milano e Venezia. “Il Veneto è autosufficiente dal punto di vista energetico”, ha detto a caldo Zaia, “e il nostro territorio non è morfologicamente adatto a ospitare nuove centrali. Questo è il parere che io fornirò quando mi verrò richiesto. Ma non sono contrario al nucleare”. Più o meno quanto ribadito da Formigoni, convinto anche lui sulla necessità di nuove centrali “ma non da noi”. Come no, presidente Formigoni? Anche lei va contro il suo partito? “In Lombardia non c’è la necessità, non c’è bisogno in questo momento”. Più prudente il governatore del Piemonte Roberto Cota che dice di restare coerente con la sua scelta nuclearista, ma anche lui sostanzialmente contrario a trovare un posto alle centrali nella sua regione.

Più coerentemente contento Vasco Errani da Bologna: “Il governo è bene che cambi linea. La sentenza della Consulta riconosce infatti il ruolo e la funzione delle Regioni, ribadendo la necessità che rispetto alla localizzazione degli impianti per produrre energia nucleare la Regione e, attraverso di essa, la comunità regionale possano esprimersi con un parere obbligatorio, confermando comunque la necessità di raggiungere poi un’intesa in sede di Conferenza unificata”.

Dove saranno realizzate le centrali rimane un mistero. Toscana, Puglia, Emilia Romagna, Basilicata, Sicilia, Umbria, Sardegna e la Liguria non ne vogliono sentir parlare. Romani che del nucleare ha fatto una missione nel suo dicastero, invita tutti alla ragionevolezza. Non è colpa sua se la legge è stata fatta, come la maggior parte dei provvedimenti firmati del governo targato Pdl-Lega, in modo e maniera che la Consulta si sia trovata a eccepire sulla costituzionalità del provvedimento. La Costituzione è proprio un fastidio per questo Governo.
Più stizzita è il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo, che in quel consiglio dei ministri, quando si è deciso il decreto, c’era: “La Consulta ha confermato e ampliato l’opzione della piena condivisione con i territorio delle scelte per la localizzazione delle centrali. La decisione non mette in discussione la responsabilità finale del governo, ma aggiunge di fatto un parere delle Regioni anche in sede di autorizzazione unica”. “Mi sembra ridicolo che gli antinuclearisti cantino vittoria. Nessuno ha mai pensato di fare le centrali contro il parere delle comunità. Adesso occorre soltanto andare avanti speditamente mettendo in moto l’ Agenzia per la sicurezza nucleare”.

E la Lega che non vuole le centrali in casa? Non è un problema? No, questo punto non viene neppure preso in considerazione. Certo è che la prospettiva nucleare si allontana (l’inizio dei lavori era previsto per il 2013) e non poco. Il governo al momento ha altre priorità in agenda. Come sempre, per preparare gli italiani, il premier ha fatto ricorso al suo strumento comunicativo preferito: la televisione. Sei milioni di euro, è costato lo spot che ritrae due attori impegnati in una partita di scacchi, uno contrario al nucleare, l’altro più convinto e convincente. Nel concreto però del nucleare ancora non se ne sa nulla, del resto è il governo del fare (...quello che gli pare).

idv gualtieri

domenica 23 gennaio 2011

magistrati sotto attacco


Riportiamo senza commenti l'articolo di Roberto Saviano, ripreso da La Repubblica.
IdV Gualtieri

Il vero "orrore" è isolare i magistrati
di Roberto Saviano

Ho ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza, mi è stata conferita dall'Università di Genova; è stata una giornata per me indimenticabile. Credevo fosse fondamentale impostare la lezione, che viene chiesta ad ogni laureato, partendo proprio dall'importanza che il racconto della realtà ha nell'affermazione del diritto.

Soprattutto quando il racconto descrive i poteri criminali. Senza racconto non esiste diritto. Proprio per questo ho voluto dedicare la laurea honoris causa ai magistrati Boccassini, Forno e Sangermano del pool di Milano. Marina Berlusconi dichiara che le fa orrore che parlando di diritto si difenda un magistrato. Così facendo avrei rinnegato ciò per cui ho sempre proclamato di battermi. Così dice, ma forse Marina Berlusconi non conosce la storia della lotta alle mafie, perché difendere magistrati che da anni espongono loro stessi nel contrasto all'imprenditoria criminale del narcotraffico non vuol dire affatto rinnegare. Non c'è contraddizione nel dedicare una laurea in Giurisprudenza a chi attraverso il diritto cerca di trovare spiegazioni a ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Mi avrebbe fatto piacere ascoltare nelle parole di un editore l'espressione "orrore" non verso di me, per una dedica di una laurea in Legge fatta ai magistrati. Mi avrebbe fatto piacere che la parola "orrore" fosse stata spesa per tutti quegli episodi di corruzione e di criminalità che da anni avvengono in questo paese, dalla strage di Castelvolturno sino alla conquista della 'ndrine di molti affari in Lombardia. Ma verso questi episodi è stato scelto invece il silenzio.

Orrore mi fa chi sta colpevolmente e coscientemente cercando di delegittimare e isolare coloro che in questi anni hanno contrastato più di ogni altro le mafie. Ilda Boccassini, coordinatrice della Dda di Milano, ha chiuso le inchieste più importanti di sempre sulle mafie al Nord. Pietro Forno è un pm che ha affrontato la difficile inchiesta sulla P2 ed ha permesso un salto di qualità nelle indagini sugli abusi sessuali, abusi su minori. Antonio Sangermano, il più giovane, ha un'esperienza passata da magistrato a Messina, recentemente ha coordinato un'inchiesta, una delle prime in Italia, sulle "smart drugs", le nuove droghe. Accusarli, isolari, delegittimarli, minacciare punizioni significa inevitabilmente indebolire la forza della magistratura in Italia, vuol dire togliere terreno al diritto. Favorire le mafie. Ecco perché ho dedicato a loro la lezione di cui, qui di seguito, potete leggere un ampio stralcio.

* * *

È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c'è sempre dell'incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?

In realtà forse la dinamica è un po' più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l'attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.

Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c'è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l'emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell'immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.

Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell'eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare.
Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c'è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.

Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell'isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un'immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l'espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c'è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all'improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.

Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent'anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l'Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l'incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell'armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".

Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l'errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.

C'è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l'intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.

Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia.

mercoledì 5 gennaio 2011

In ricordo Pippo Fava e Beppe Fava.


Il 5 gennaio del 1984 la mafia uccideva Pippo Fava. Esso era uno di quei giornalisti che, pur di raccontare la verità, non esitava a correre dei rischi e non s'intimidiva a scrivere di mafia.

Era uno di quelli che già negli anni '70 vedeva la mafia come un fenomeno diverso, guardandola in modo più ampio e considerandola nella sua complessità. Vedeva la potenza del denaro illecito che diventava lecito se investito nei canali "giusti". Fava, da siciliano, diceva che la Mafia, quella veramente pericolosa per tutto il Paese, stava in Parlamento, nelle istituzioni.

In Italia, dove i rapporti tra mafia e Stato non vengono mai chiariti, il giornalismo come quello che faceva lui è indispensabile.
Oggi che alcune di quelle relazioni stanno venendo a galla, in un periodo nel quale siamo vicini come mai alla verità, abbiamo l'obbligo di ricordare le parole di chi pur consapevole dei rischi che stava correndo, come sono tutte le vittime della mafia, non si è fermato e ha continuato a denunciare.

L’8 gennaio del 1993 sempre la mafia uccideva un altro valoroso giornalista, Beppe Alfano, padre di Sonia, deputata al Parlamento europeo ed eletta, come indipendente, nelle liste dell’Italia dei Valori.

Tra qualche giorno ricorrerà l’anniversario dell'uccisione di Beppe Alfano che, innamorato della sua terra, denunciava chi, nell'illegalità, la storpiava.

Se per l’omicidio di Fava ci sono state delle condanne, nel clan dei Santapaola, gli assassini di Alfano sono ancora a piede libero, ed è questo l'insulto più grande alla sua memoria.

L'eredità morale di Fava e Alfano, giornalisti veri uccisi per le loro idee e per le loro azioni, è stata raccolta solo da pochi. Per essere veri giornalisti ci vuole del coraggio, oltre a una cultura positiva, caratteristiche sempre più rare.

Noi non dovremo mai far mancare il nostro supporto incondizionato a chi lotta ogni giorno, con ogni mezzo, contro le mafie.

IdV Gualtieri
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