Vi segnalo un articolo pubblicato dall'Espresso, riguardante la crisi economica che stà investendo anche l'Emilia, e Gualtieri in particolare.
C'era una volta la via Emiliadi Tommaso Cerno
Da sette mesi tira a campare con la cassa integrazione, e non sa se ritroverà il suo posto alla Dugomrulli di Bologna. Le commesse sono crollate, i fornitori premono. Intanto Massimo Dondi non ha i soldi per pagarsi la rata del mutuo, coi 700 euro scarsi che gli passa l'Inps. Così, a 39 anni ha rinunciato a mettere su famiglia e vive coi suoi: "Sarò un bamboccione, ma là fuori c'è tanta gente che, se io la vedo grigia, loro la vedono nera".
Là fuori c'è la via Emilia, irriconoscibile nella crisi globale che l'ha messa in ginocchio come se fosse passato un uragano. Era uno dei simboli dell'Italia produttiva, e non di quella del 'mordi e fuggi'. Marchi storici del made in Italy, welfare solido, un imponente sistema cooperativo, quasi 2 milioni di occupati (con un incremento storico dell'1 per cento annuo). Nel 2007 segnava il 2,3 per cento di aumento del Pil e una crescita di fatturato del 2,7, quando l'Italia era già ferma.
Nel 2008 il primo segno meno; da gennaio 2009 il crollo: giù del 13,3. E la ceramica del 30. Delle 100 mila industrie attive in Emilia Romagna fra manifatture e costruzioni, 70 mila sorgono proprio lungo i 329 chilometri della strada che da più di 20 secoli collega Rimini con Piacenza, per proseguire poi fino a Milano. E che sta pagando più di tutti la recessione. La Ss 9, come l'ha ribattezzata l'Anas allargando la consolare di Emilio Lepido per dare asfalto ai camion di mezza Europa, si sta svuotando. Uno dei territori più ricchi d'Europa, con 32 mila euro di reddito medio pro capite, fa i conti con l'incremento dei poveri: cento famiglie in più ogni giorno fanno la spesa con gli sconti di solidarietà della Coop Adriatica. E pensare che da quelle parti nascevano più aziende che bambini, con un trend annuo in tempi normali di quasi una partita Iva in più ogni cento registrate. Da gennaio l'inversione: lo 0,8 per cento in meno. Quasi una ditta ogni cento ha già chiuso i battenti.
Un pezzo di Italia produttiva è in pericolo. Come un fiume rimasto senz'acqua, la via Emilia rischia la desertificazione. Fabbriche chiuse, cancelli sbarrati, scioperi di Cgil, Cisl e Uil a ogni chilometro. Molte piccole imprese (qualcuno azzarda una su quattro) potrebbero chiudere per le ferie di agosto e non riaprire nemmeno, strozzate dai debiti verso i fornitori, dagli stipendi da pagare, dai contributi da versare. E senza più le banche disposte a fare credito. L'Abi ha dato la stretta sui prestiti. I rubinetti del contante si chiudono per molti padroncini.
Per avere cento, di questi tempi, devi garantire 150. Senza contare che gli ammortizzatori sociali valgono solo per le grandi industrie. Per piccoli e medi, se non c'è lavoro gli operai vanno a casa.
Da gennaio la cassa integrazione è decuplicata rispetto al 2008 e ha superato i cinque milioni di ore al mese. Più di tutti paga la meccanica, che da sola pesa per il 75 per cento. Milioni di ore, dietro alle quali ci sono migliaia di vite e di sogni diventati incubi. Com'è la storia di Matteo: aveva lasciato Bari due anni fa in cerca di fortuna e si era presentato a Imola, alla Cnh di proprietà della Fiat, con la valigia in mano per firmare quel contratto che sembrava il biglietto vincente della lotteria.
Ma la ruota ha fatto un giro di troppo. Pochi mesi dopo, Sergio Marchionne ha annunciato da Torino il piano del Lingotto: si farà a meno dello stabilimento sulla via Emilia. Cassa ordinaria, poi straordinaria e, infine, tutti a casa entro due anni: 454 operai. "Mi è crollato il mondo addosso. Mi entrano 400 euro al mese, fra poco nemmeno più quelli. Non pago più l'affitto, né le bollette, né le rate dei mobili. Ho le banche che mi inseguono. Mi metterò a rubare".
Di storie così se ne incrociano sempre di più sulla via Emilia, da Cesena a Forlimpopoli, da Faenza a Reggio. L'alimentare, fra Piacenza e Parma, soffre un po' meno: il Parmigiano scende nelle vendite, ma solo del 3 per cento. La meccanica reggiana e quella bolognese, invece, sono nel tunnel. Cassa integrazione anche nelle industrie di eccellenza, come Magneti Marelli e Minarelli. Ancora peggio per le ceramiche di Sassuolo, nel modenese, dove Romano Minozzi, titolare della Iris che ha oltre700 dipendenti, a gennaio, nel bel mezzo della pausa natalizia, ha annunciato la chiusura: "L'abbiamo letto sul giornale e siamo rientrati di corsa", racconta Antonio Santomauro, operaio specializzato che oggi siede in consiglio comunale: "Picchetti e proteste fino a quando l'azienda ci ha messi in cassa integrazione".
Stessa musica all'Emilceramica, alla Nuova Fima, un po' dappertutto. Meglio alla Marazzi, leader italiana con oltre mille dipendenti, anche se fra i sindacalisti da qualche settimana c'è il timore di un centinaio di esuberi. La strada, avverte Filippo Marazzi, è "investire in ricerca, in nuove tecnologie, in produzioni anche vicine ai mercati", aspettandosi però un processo di selezione delle imprese. E proprio su questo i lavoratori chiedono al ministro del WelfareMaurizio Sacconi di intervenire. Da Roma per ora tacciono.
"È una crisi dura, senza precedenti, dai contorni e dai tempi difficili da definire", ammette la presidente di Confindustria Emilia Romagna, Anna Maria Artoni: "Abbiamo chiesto alla Regione interventi straordinari per opere pubbliche e infrastrutture, sostegno a Confidi e accesso al credito, e di velocizzare i pagamenti". E sono arrivati: un miliardo di euro messo a disposizione dalle banche proprio grazie ad accordi fra assessorato, Unioncamere, Confidi e categorie.
Un plafond per anticipare stipendi e pagamenti di forniture. Sì, perché il dramma di molte aziende non sono nemmeno gli ordinativi, che per altri tre o quattro mesi ci sarebbero anche, come nel caso della Grimac, macchine per il caffè, che invece ha dichiarato il fallimento. Sono i soldi liquidi che mancano. Nessuno paga più nessuno. E così si accatastano le merci, che non stanno più nei magazzini. Milioni di metri cubi di invenduto che rischia di restare tale.
Le locande dove con nove euro i camionisti mangiavano i tortelli, adesso licenziano. Il tassista Franco, che ha macinato due milioni di chilometri su quella strada, ha deciso di mollare a fine anno: "Non ci sto dentro". Accusano la crisi addirittura le giovani prostitute, quasi tutte romene o moldave, che dalle sette del mattino affollano Borgo Panigale. Meno Tir, meno giro. "Non hanno soldi", si arrabbia Flavia, la moderna Bocca di rosa fra Sant'Ilario e Modena.
Solo che stavolta al posto del cartello giallo cantato da Fabrizio De Andrè, spuntano giganteschi tabelloni grigi a dire tutti la stessa cosa: 'Vendesi capannone'. Secondo Nomisma, in tutte le province attraversate dalla via Emilia le piccole imprese chiudono. Segno meno nell'industria (dell'1,1per cento), nella moda (del 2,4), fino alla chimica (dell'1,6). L'unico segno più se lo conquista l'intermediazione finanziaria, chi presta i soldi ai nuovi poveri.
Fra operai e impiegati sette famiglie su dieci nel 2009 hanno rinunciato alle ferie lunghe. "Come le paghiamo?", si chiede Gloria, operaia ventinovenne. La sua azienda è una di quelle che hanno chiuso per le vacanze estive e forse non riapriranno più. Sono centinaia. "E il peggio deve ancora venire", avverte Nicola Patelli della Fiom di Bologna: "L'impressione è che a settembre scatterà la mobilità, perché la ristrutturazione dovrà avvenire entro fine anno, così da presentarsi puliti dalle banche". Significa che, crisi dei mercati Usa a parte, la colpa del disastro è un po' anche nostra. Dei limiti di un management che, in parecchi casi, ha gestito male l'emergenza.
Reggono i grandi marchi del made in Italy, come Ducati Motor. Passati quei cancelli, la morsa sembra darti tregua. I bolidi rosso fiammante, dallo Streetfighter al Monster, raccontano che c'è qualcuno che ce la fa. Niente cassa nello stabilimento dei campioni del mondo. Non che la crisi non si senta, ma vuoi il mercato di nicchia, vuoi le vittorie di Casey Stoner, il peggio è passato. Eppure basta percorrere poche centinaia di metri, che la scena cambia di nuovo. Alla Ducati Energia, azienda di famiglia di Federica Guidi, presidente dei giovani di Confindustria, il lavoro è in flessione. "C'è la cassa a rotazione, alcuni di noi sono a casa da aprile", racconta Raffaella Sugheri.
È colpa della crisi, ma anche della forte delocalizzazione verso India, Romania e Croazia. "Da oltre 500 che eravamo, siamo rimasti in 260". Stessa musica per Arcte, del gruppo Burani: prepara 90 esuberi su 180 posti, il 95 per cento donne. E come Arcte, Harris di Rastignano, l'Alpi legno di Modigliana e una miriade di altri marchi riconosciuti. Alla Camst, poi, il più importante gruppo di ristorazione a capitale italiano con 11 mila addetti, i dirigenti si sono tagliati lo stipendio per aiutare i cassaintegrati. "Ci accorgiamo della crisi dal crollo del lavoro nelle mense aziendali, che perdono il 20 per cento", spiega il segretario generale Marco Minella, "c'è miseria vera".
Non è immune nemmeno il colosso Coop Costruzioni, che aveva chiuso il 2008 con 187 milioni di produzione e un utile cresciuto del 67 per cento. "Quest'anno la situazione è drammatica, i lavori sono pochissimi, i bandi pubblici sono scesi di un terzo e le concessioni private del 40 per cento", elenca il presidente Adriano Turrini: "Per ora non abbiamo fatto cassa integrazione, ma non è detto che potrà continuare così". È sul suo storico welfare che ora la via Emilia scommette tutto. "Evitare il più possibile licenziamenti", ripete fino allo sfinimento l'assessore alle Attività produttive Duccio Campagnoli, che da sei mesi passa da una trattativa all'altra: "Abbiamo chiuso 50 accordi, ma non basta. Spingiamo sui contratti di solidarietà, sulle intese con le banche. E tiriamo la cinghia. Gli imprenditori emiliani? Non si scoraggiano".
Basterà? A guardare cosa sta avvenendo a
Gualtieri, qualche dubbio viene.
La Tecnogas, che compone fornelli e cucine, si trova sul baratro dopo la crisi del gruppo Antonio Merloni di Fabriano, che nel '97 ha rilevato l'azienda emiliana. Per mesi si sono attesi un programma di ristrutturazione e un piano industriale. È arrivata la cassa integrazione, la riduzione degli organici (da 800 a 460) e lo spettro della chiusura.Irina Petrescu è romena, vive in Emilia da 17 anni, e teme che in un colpo solo perderanno il lavoro sia lei sia il marito. "Berlusconi dice di spendere la tredicesima? Beh, qui la tredicesima non esiste più". Gli operai hanno costruito una baracca ai cancelli e ci hanno trascorso l'inverno davanti a una stufa arrangiata. "Qualcuno portava i tortelli, qualcuno il lambrusco", racconta il delegato di fabbrica Nevino Marani. Hanno prodotto addirittura un calendario per raccogliere fondi. Emblematico: i 12 mesi raccontano scioperi, picchetti e assemblee all'aperto.
Non bastasse, ci si mettono le multinazionali. La Nike a Casalecchio di Reno progetta di mandare a casa una quarantina di persone. "Non ne hanno motivo", denuncia Fabio Fois della Cgil, "ma ormai in questo clima tutti cercano di ridurre gli organici". A Forlì, Ferretti riesce invece a galleggiare grazie a una pesante ristrutturazione del debito, tuttavia non a navigare come i suoi yacht milionari. Un gruppo da 2.600 dipendenti che solo lì ne impiega 480. "Sembrava tutto rose e fiori e invece no", lamenta Loris Bacci, 42 anni. Come Loris, migliaia di altri sulla via Emilia della crisi. L'elenco è lungo, come le ore di cassa integrazione. Senza più certezze.